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mercoledì 19 dicembre 2012
AMBROSOLI oggi a TS: ripartire dalle regole
Nel nome del padre. E della legalità. Giorgio Ambrosoli, liquidatore del Banco Ambrosiano, fu ucciso a Milano da un killer della mafia nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1979. Lui, Umberto, avvocato come il padre, da domenica sera candidato presidente del centrosinistra alla Regione Lombardia, all’epoca aveva otto anni. Pochi per capire, abbastanza per averne la vita segnata.
Avvocato, quand’è entrato nella sua vita il tema della legalità?
«Quando è stato ucciso mio padre era troppo presto. Non potevo ancora percepire quel lutto sul paradigma della legalità. Allora c’era solo il dolore, l’incredulità di aver perso il proprio padre. Crescendo, ricordo di essere entrato in rapporto con le regole, con i suoi strumenti. In fondo la legalità è solo un sistema di regole, per garantire alla società una convivenza civile».
Ai suoi tre figli come spiega questi concetti?
«Partendo dal gioco. Nel quale il sistema delle regole viene imparato prestissimo, nell’esigenza di condividere il divertimento con altri bambini. Non è facile, da piccoli vogliamo vincere, senza badare alle regole. A nascondino o a monopoli, magari scegliendo scorciatoie o trucchi non permessi dal regolamento del gioco. Ecco, io tento di spiegare ai miei figli, che sono ancora piccoli, che il divertimento deve passare attraverso il rispetto delle regole. Che vale più del risultato».
E del nonno che cosa ha detto loro?
«Che era una persona che ha fatto una cosa importante e bellissima. Per tutti noi. E che ha pagato con la vita questo suo impegno».
Agli studenti, in questi incontri, cosa racconta?
«Che ci sono tanti esempi di altri studenti, più o meno della loro età, che hanno saputo interpretare il concetto di legalità con comportamenti che hanno rappresentato modelli di crescita e di cambiamento. E che ora hanno loro l’occasione di fare qualcosa di utile per tutti. Un tema che ha una certa presa».
Da ragazzi le regole non piacciono.
«È vero, ma nei miei incontri nelle scuole e nelle università tento proprio di spiegar loro che le regole, la legalità sono il punto d’incontro fra le esigenze dei singoli e quelle della collettività. Si può essere liberi anche e soprattutto rispettando le regole».
Lei ha mai occupato la sua scuola?
«Occupato in senso tradizionale no. Ma al mio liceo classico, il Manzoni, a Milano, avevamo trovato delle forme di protesta diverse, anche di lunga durata. Per esempio tenendo assemblee durante le ore di lezione e oltre il limite fissato dalla scuola».
Quando e perchè ha deciso di scrivere un libro su suo padre?
«”Qualunque cosa succeda” è uscito tre anni fa, ma la decisione di scriverlo è nata in me qualche anno prima. Ed esattamente quando è nato il mio primo figlio. Ricordo che in ospedale, poco dopo il parto, un’infermiera ci ha avvertito che era arrivato il nonno. Era ovviamente mio suocero. Ma in quel preciso istante ho deciso che a quel bambino, che abbiamo chiamato come mio padre, avrei dovuto prima o poi raccontare per bene chi era e che cosa aveva fatto l’altro suo nonno. Quello che lui non avrebbe conosciuto, se non attraverso le nostre parole e i nostri ricordi».
Perché ha voluto che fosse Ciampi a scrivere la prefazione?
«Il presidente emerito è, fra gli uomini delle istituzioni, quello che maggiormente si è adoperato per tenere vivo e onorare il ricordo di mio padre. Ritengo inoltre che sia uno dei pochi esempi di uomo dello Stato, cioè di tutti e non di una parte. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che la prefazione andasse chiesta a lui».
Come l’hanno convinta ad accettare l’impegno in politica?
«In effetti ho avuto molti dubbi. Già due anni fa, si era parlato di una mia possibile candidatura a sindaco di Milano. Avevo detto di no. Nonostante una riflessione sul senso dell’impegno individuale per il proprio Paese. Stavolta, dopo tanti dubbi e ripensamenti, ho accettato pensando soprattutto a una frase di un mio amico».
Continui.
«Il concetto era più o meno questo. Davanti allo sfascio al quale siamo arrivati, cosa diremo un giorno ai nostri figli quando ci domanderanno: ma tu cos’hai fatto per evitare tutto questo? Ecco, al di là di quello che è successo in questi ultimi mesi, gli inviti e le pressioni degli uni e degli altri, pensare a quella domanda alla fine mi ha fatto dire sì».
Che Milano, che Lombardia ha visto durante la campagna per le primarie?
«Una comunità lacerata dalla crisi ma non rassegnata. Donne e uomini con tante idee, tanta volontà di trovare una soluzione, di partecipare, di ascoltare e di essere ascoltati. Persone stufe dei giochi di potere, animate dai valori dell’onestà, della solidarietà, dell’accoglienza. E poi mi hanno colpito le aspettative riposte in me, per avermi letto sul Corriere o nel mio libro. L’aspettativa di trasferire quei concetti, quei valori anche nella politica».
In Lombardia oggi c’è più o meno mafia che nel ’79?
«Assolutamente di più, lo dicono tutti i dati. La Lombardia è oggi la quinta regione per beni confiscati alla mafia, che ha ramificazioni profonde nella nostra comunità regionale. E la massa di denaro di provenienza illecita ha assunto ormai proporzioni allarmanti».
Come pensa, oggi, a suo padre?
«Come disse Corrado Stajano nel libro “Un eroe borghese” (da cui il film omonimo con Fabrizio Bentivoglio - ndr), mio padre era una persona animata da un moderato legalitarismo. Non ha fatto quel che ha fatto interpretando il ruolo del combattente di una guerra santa, si è solo messo al servizio dello Stato. E il suo esempio indica cosa significa essere uomini, cittadini, professionisti, nella consapevolezza del proprio ruolo nella società, del valore della propria libertà».
Il libro di Ambrosoli comincia così: «Cari Giorgio, Annina e Martino, vorrei raccontarvi una storia...». Il titolo è tratto dalla lettera che il padre scrisse alla moglie quattro anni prima di essere ucciso: «Pagherò a caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai farlo benissimo».
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