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mercoledì 17 ottobre 2012
BRUNELLO e la stazione di campo marzio
La vecchia stazione triestina di Campo Marzio gli è rimasta nel cuore. Ha voglia di ridarle ancora vita, come ha fatto a fine settembre, per una sera, con la sua musica e i racconti di Paolo Rumiz, nell’ambito di “Next”. «Visto che non serve più come stazione - lancia a mo’ di provocazione il violoncellista Mario Brunello -, potrebbe diventare un luogo di incontro per la gente, per la musica, per gli artisti che amano viaggiare e raccontare quel che hanno visto e sentito...».
L’idea era in realtà nata prima dell’evento per la rassegna triestina. «Volevamo dare una scossa - spiega l’artista, nato a Castelfranco Veneto, classe 1960, collaborazioni di prestigio in giro per il mondo -, riuscire a far muovere quelle enormi locomotive addormentate. Il progetto iniziale era far partire due treni, uno da Vienna e uno da Venezia, ognuno col suo carico di musicisti che si sarebbero dovuti incontrare proprio a Campo Marzio. Musicisti diversi per esperienze, linguaggi, storie da raccontare. E che lì, nella vecchia stazione dismessa, avrebbero trovato una meta fuori dal tempo, un luogo dove raccontare e raccontarsi...».
Perchè non ce l’avete fatta?
«C’eravamo quasi riusciti. Le procedure burocratico-ferroviarie erano state ultimate, ma tutto è stato sbloccato in ritardo, fuori tempo utile. Comunque la serata con Rumiz è andata bene lo stesso. Ma mi è rimasta la voglia di portare a termine quel progetto».
Chi chiamerebbe?
«Musicisti che hanno scritto di treni. Il cantautore Gianmaria Testa? Beh, lui sarebbe perfetto: avendo fatto per tanti anni il capostazione nel suo Piemonte, saprebbe anche come far entrare i treni nella stazione. Vinicio Capossela, col quale collaboro: lui è uno di quelli che amano viaggiare, incontrare genti nuove, raccontare le sue storie. Ma anche Marco Paolini, figlio di ferroviere. E poi ci vorrebbe qualcuno che suoni quella composizione che il grande John Cage dedicò proprio a un treno».
Cosa le piace di Campo Marzio?
«Tutto. Entrare in un luogo sospeso nel tempo, che in realtà non è morto, ha una sua intima vitalità. Eccezionali i volontari che tengono aperto il museo ferroviario. Lì c’è un’aria quasi casalinga, sembra di salire su quei vecchi vagoni di legno di tanto tempo fa, si immagina chi ha fatto i lavori, chi vi ha viaggiato. Niente a che vedere con la Frecciarossa, insomma».
Lei porta la musica in luoghi “strani”.
«La musica non nasce mai per un luogo preciso. Nella testa di un compositore c’è uno spazio infinito, non una sala da concerto. Io ho suonato nelle carceri e nelle fabbriche dismesse, nei deserti e sulle montagne. Luoghi in cui si trova quello spazio infinito».
Come sulle Dolomiti.
«Dal ’95 facciamo “I suoni delle Dolomiti”, andiamo a suonare nei rifugi alpini per la meraviglia del paesaggio che si gode da lassù, ma soprattutto per il silenzio. Un silenzio integrale, che accoglie la musica e completa quello spazio infinito di cui dicevo prima».
Nicola Piovani ha attaccato la “musica passiva”.
«Ho letto. Sono d’accordo quando dice che dovremmo difenderci da quelle musichette che ci perseguitano ovunque: al supermercato, in ascensore, dal dentista... Ma penso anche che in questa epoca di video sempre accesi, ovunque, è meglio una buona musica di sottofondo. Beethoven mi va bene anche in ascensore, insomma. Dipende sempre dalla qualità della musica che ci fanno ascoltare».
Il luogo più estremo in cui ha suonato?
«Il deserto del Sahara, assolutamente. Per cinque anni abbiamo organizzato dei trekking musicali con piccoli gruppi: lunghe camminate e poi ci fermavamo per suonare. Un’emozione davvero grandissima. Per me, per loro, ma credo anche per il mio violoncello, un Maggini del Seicento...».
Il Capannone antiruggine?
«L’ho aperto cinque anni fa, a Castelfranco Veneto. Un’antica fabbrica dismessa dove si lavorava il ferro, che ho scoperto avere un’acustica eccezionale. Lo abbiamo trasformato in uno spazio aperto alle cose particolari che ogni tanto incrocio e voglio condividere con altri. Musica, parole, mostre, quello che capita».
Fate una stagione?
«No, né stagione né programma. Stasera (ieri - ndr), per esempio, suono con il violinista algerino Gilles Apap e l’Orchestra d’archi italiana. Danze di strada, ungheresi, rumene, slave, e poi Brahms, Dvorak, Bartok. Per togliere la ruggine alla musica».
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