«Conosco e ammiro tutta l'opera di Piero Ciampi, ma un errore l'ha commesso, è stato quando ha detto che 'morto un poeta se ne fa un altro'. Non è vero, perché morto lui non ce ne sarà mai un altro alla sua altezza». Parola di Fabrizio De Andrè, pochi anni prima di lasciarci, in quella fredda mattina di gennaio di sei anni fa.
Sono passati invece venticinque anni dal 19 gennaio 1980, quando appena quarantacinquenne morì il poeta e cantautore livornese. Ma il tempo trascorso ha rafforzato la convinzione dell’assoluta importanza della figura e dell’opera di Ciampi nel panorama della canzone d’autore italiana.
Vita da «maledetto», la sua. Nato nel settembre del ’34, durante il servizio militare, a Pesaro, conosce Gianfranco Reverberi - futuro autore e produttore di successo -, con lui forma un complessino. Va a Parigi, dove canta nei locali come «Piero Litaliano». Che nel ’63 diventa il titolo del suo primo album. Ma è inquieto, parte e torna mille volte, mentre i suoi amici (Paoli, Tenco, lo stesso Reverberi...) cominciano a far carriera. Nel ’70 esce con un 45 giri, Aznavour gli offre la grande platea televisiva di «Senza rete». Nel ’71 va persino al «Disco per l’estate», ma arriva ultimo; esce il secondo album, intitolato «Piero Ciampi» e premiato dalla critica come disco dell’anno. Scrive le canzoni per un album di Nada, Raidue gli dedica uno special, il Club Tenco lo invita...
Ma la sua carriera deve lottare innanzitutto contro se stesso. Contro le sue scelte autodistruttive, l’alcolismo, l’indisponibilità ai compromessi, una genialità disordinata e ingestibile. Muore in un ospedale romano, pochi giorni dopo l’arrivo del sospirato sì al progetto di un album dedicato alle sue migliori canzoni.
Le sue canzoni vivono ancora. Grazie a Paoli, a Nada, a Morgan, ai La Crus... Prima e meglio di tanti altri ci ha parlato della sua e della nostra vita, quotidianità, fantasia. Di problemi, sogni, fragilità che lo portavano a dire spesso: «La morte mi fa rabbia perché non la posso fregare...».
Scriveva le sue canzoni sulle tovaglie di carta, raccontò una volta Francesco De Gregori. «Alcune, ne sono sicuro, si perdono insieme alle molliche e ai cerchi rossi lasciati dal bicchiere. Altre, invece, quelle che si salvano, te le racconta a tavola, o quando ti capita di dargli un passaggio. Altre ancora, infine, le registra su disco. E queste non sono necessariamente le migliori...».
Nella Roma musical-discografica degli anni Settanta, quella che vedeva crescere il fenomeno dei cantautori, Ciampi era amato dai tanti colleghi più giovani. Un altro episodio raccontato da De Gregori dice più di tante analisi: era perennemente in bolletta, e una volta chiese centomila lire al giovane collega romano che con «Alice» e «Rimmel» viveva i primi successi anche economici. Sentendosi anche un po’ in colpa per tale suo successo, De Gregori gli diede i soldi. Salvo scoprirlo un paio d’ore più tardi, in una fiaschetteria di Campo de’ Fiori, mezzo ubriaco che offriva da bere a tutti. Ovviamente con le sue centomila...
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