Forse è vero: le belle canzoni sono come le belle donne, rimangono tali indipendentemente dagli abiti che vestono. Antonello Venditti - protagonista ieri sera al PalaTrieste di «Buon anno Trieste» (i seimila inviti distribuiti dall’Associazione commercianti sono andati esauriti in pochi giorni) - di belle canzoni nella sua carriera ne ha scritte davvero tante. Dalle primissime, «Sora Rosa» e «Roma capoccia», negli anni Sessanta, quand’era un adolescente grasso, a quelle del debutto ufficiale (con e senza De Gregori) all’inizio degli anni Settanta, fino a quelle dei tanti dischi che si sono succeduti sino a oggi.
Canzoni sempre nate al pianoforte, pensate per piano e voce, anche se tante volte vestite di abiti musicali più accattivanti. La novità di questo tour - e del cd/dvd che l’ha preceduto, «Campus Live» - è che per la prima volta il cinquantaseienne cantautore romano «non tocca tastiera». Fa il cantante e basta, accompagnato da una band di sette elementi nella quale il ruolo predominante è affidato alle chitarre. E va detto che, proprio in virtù dell’assioma di cui all’inizio, il risultato finale è comunque buono. Le belle canzoni rimangono tali. Con o senza pianoforte.
Partenza con «Che fantastica storia è la vita», che dava il titolo all’ultimo album in studio, uscito nel 2003. Ma anche con «Qui», «Il compleanno di Cristina», «Ventuno modi per dirti ti amo», «Giulio Cesare»... Per affondare il colpo c’è solo l’imbarazzo della scelta: fra «Sotto il segno dei pesci» e «Piero e Cinzia», «Dimmelo tu cos’è» e la classicissima «Roma capoccia», «Sara» e «Notte prima degli esami» (per tre chitarre acustiche). C’è tempo anche per «Stella», «Peppino», «Lacrime di pioggia», «Alta marea», «Amici mai», «Ci vorrebbe un amico»...
Fra i bis, l’omaggio quasi a sorpresa a Luigi Tenco («Lontano lontano») e l’unico inedito del nuovo disco: «Addio mia bella addio», rivisitazione in chiave pacifista di un vecchio brano della guerra ’15-’18, ispirato a un’ancor più antica poesia risorgimentale.
Ma la giornata triestina di Venditti ha avuto anche un prologo al mattino, nell’incontro con la stampa. Dove gli chiedono un augurio per il 2005, e lui: «Per alcuni l’augurio è quello di un fatturato migliore. Per altri l’augurio è quello di nascere e di non morire...». Un commento sul derby romano? «Del calcio non bisogna parlare più. Non bisogna scrivere né dire più niente. Bisogna aspettare che torni a essere soltanto un gioco...».
L’incontro comincia con una sviolinata nei confronti di Trieste. «Questa è una città che mi dà sempre emozioni e nella quale vivrei, per il suo fermento culturale, per la sua vicinanza ad altri mondi che con l’Europa unita sono ancor più vicini. Ma Trieste, che è un punto fermo della storia italiana, rischia di essere solo una città di passaggio, sfiorata da chi va in vacanza in Croazia o a giocare in un casinò sloveno. La città paga il suo modo elegante di esistere, di non voler disturbare. Ma purtroppo in questo mondo l’eleganza e l’educazione non pagano...».
Qualcuno, a questo punto, prende la palla al balzo e gli chiede una canzone su Trieste. Venditti svicola, giustamente non vuole prendere impegni. Né forse vuole ancora rivelare che sta studiando da qualche tempo la storia della triestina Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, sopravvissuta ad Auschwitz, scomparsa nel 2003, figura simbolo della Resistenza. Chissà, forse ne potrebbe venir fuori una canzone...
Del concerto dice: «Dopo il tour precedente, nel quale ero tornato alla mia vecchia formula ”pianoforte e voce” i miei musicisti si sono un po’ sentiti messi da parte e mi hanno detto: ora quel pianoforte te lo buttiamo, d’ora in poi devi pensare solo a cantare. All’inizio ero un po’ scettico, poi mi sono lasciato coinvolgere dal progetto di rivisitare le mie canzoni ”dalla parte della band”, con le chitarre al posto del pianoforte...».
Poi racconta dei quattro mesi passati quest’estate al Campus, «questa specie di università della musica, della danza, del teatro che è stata aperta a Roma, a Cinecittà, e che somiglia un po’ a quella parte bella che noi sogniamo dell’America. È stata un’esperienza incredibile, fra i giovani, ed è nato anche questo cd/dvd che fotografa quel momento...».
Per chiudere, due parole su due amici ritrovati, o forse mai persi: Francesco De Gregori e Gato Barbieri. «Con loro prevale l’aspetto umano, personale, privato, che vince su quello spettacolare. Con De Gregori potremmo fare mille tournèe, preferiamo vederci, sentirci, andare al cinema assieme. Gato ha settant’anni e sei by-pass: sua moglie è morta, ha avuto la forza di risposarsi e fare un figlio. Lui è il simbolo di ”Che fantastica storia è la vita”, per la quale non a caso ho voluto il suo sax...».
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