«Una visione tridimensionale di parole e musica. Il tentativo di scomporre la realtà per armonizzare le esigenze della poesia e della telematica che oggi ci circondano...».
Vola alto Alberto Fortis, per spiegare il senso del suo nuovo disco «Fiori sullo schermo futuro», uscito un paio di mesi fa, che sta portando in giro nel tour che giovedì alle 21 fa tappa in Slovenia, al Perla di Nova Gorica.
Fortis, ma che fine aveva fatto?
«Io veramente sono sempre stato qui - risponde il cantautore nato a Domodossola nel ’55, che ha debuttato nel ’79 e nei primi anni Ottanta ha vissuto il momento di maggior successo - anzi no, ho vissuto e lavorato per lunghi periodi anche negli Stati Uniti. Diciamo che ormai sto un po’ in Italia e un po’ a Los Angeles, o a New York. Comunque ho fatto tredici album in venticinque anni, all’incirca un disco ogni due anni: mi sembra una buona media per mantenere un rapporto con il pubblico...».
In America che fa?
«Sono più di vent’anni che vado avanti e indietro. Già il mio terzo album, ”La grande grotta”, uscito nell’81, era frutto di una vacanza negli States. Poi nella seconda metà degli anni Ottanta ho studiato a New York, mentre nel ’92 ho partecipato a una riunione dei popoli nativi d'America (con circa trentamila tribù) nelle terre fra Arizona, New Mexico, Colorado e Utah, appassionandomi alla storia dei nativi americani. A Los Angeles ho registrato sia ”Dentro il giardino” che ”Angeldom”, usciti nel ’94 e nel 2001...».
Insomma, un Fortis «globalizzato»...
«Io credo che con la globalizzazione noi italiani possiamo esser favoriti. Da un punto di vista creativo facciamo la nostra figura, abbiamo tante idee. L’importante è puntare sempre sull’attualità e sull’autenticità. Certo, agli altissimi livelli dell’industria musicale le differenze di mezzi si fanno sentire. Lì non c’è partita...».
E di questi Stati Uniti versione Bush, che ne pensa?
«Sono assolutamente contrario alla politica guerrafondaia della dinastia Bush. Questa guerra è assurda, lo stanno capendo anche gli americani: doveva combattere il terrorismo, ha finito per espanderlo. La mia generazione aveva sognato un’altra America: quella di Martin Luther King, dei Kennedy, tutto sommato anche quella dignitosissima di Clinton...»
Il nuovo disco?
«È la sintesi degli opposti: i fiori rappresentano la quotidianità, lo schermo futuro è questa nostra epoca che viaggia a velocità supersonica. La sintesi è un compito difficile, quasi una scommessa. Del resto la vita è una continua alternanza di opposti. E il disco è anche il riassunto di venticinque anni di carriera...».
Per il quale ha chiamato a raccolta molti vecchi amici...
«Sì, ho riunito la famiglia musicale d'origine (Rossana Casale, Claudio Fabi, i Flying Foxes...) perché volevo registrare un album molto istintuale, come "La grande grotta", cercando già in sala d'incisione la genuinità dei suoni tipica delle esecuzioni dal vivo. Erano parecchi anni che non suonavamo insieme, ma abbiamo ritrovato subito il vecchio feeling artistico e nuove emozioni, creando quel magma musicale che è impossibile se non c'è lo stesso affiatamento che ci ha sempre legato nonostante la distanza e gli impegni diversi».
Nel disco ci sono vari riferimenti cinematografici.
«Il cinema mi ha sempre affascinato. "Fiori sullo schermo futuro" potrebbe essere paragonato alla pellicola "Minority Report" di Steven Spielberg per la contaminazione fra l'aspetto poetico e quello telematico, che nella realtà attuale sono in perpetua fusione e mutazione».
E a Los Angeles, la capitale del cinema...
«Qualche anno fa ho scritto la colonna sonora del film ”Cool crime”. Recentemente ho realizzato anche storyboard e colonna sonora di un film che ho proposto alla casa di produzione di Steven Spielberg: sono in attesa di risposta...».
Ma giovedì, a Nova Gorica, «Milano e Vincenzo» la fa?
«Certo, e anche ”La sedia di lillà”, e ”Settembre”, e ”Il duomo di notte”... Quest’ultima è stata inserita da un sondaggio fra le cento migliori canzoni pop-rock. Una grande soddisfazione».
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