sabato 17 luglio 2004

«L’Europa deve indicare il teatro come priorità. Il teatro e le arti sceniche devono essere considerati un’urgenza dell’Unione europea. E bisogna creare un ponte tra cultura ed economia. Queste sono le sinergie che vogliamo, quando sentiamo parlare tanto di macroregioni. Insomma, bisogna pensare in grande: il tempo delle piccole rendite di posizione è finito...».

Alla vigilia del debutto del «suo» Mittelfest, Moni Ovadia è un fiume in piena. Di idee, di riflessioni, di invenzioni, anche di intelligenti provocazioni. L’artista di origine bulgara, massimo divulgatore della cultura yiddish nel nostro Paese, cui la Regione Friuli Venezia Giulia ha affidato per tre anni la direzione artistica del Mittelfest di Cividale, in queste ore dice di essere in uno «stato d’animo di ragionevole soddisfazione: abbiamo affrontato mille inconvenienti, mille piccoli problemi, ma la squadra ha lavorato bene, con passione e dedizione».

La speranza?

«Che il pubblico capisca e apprezzi il nostro sforzo. E di fare meglio nelle prossime edizioni. E poi, allo scadere del mandato, di riconsegnare un festival che abbia capacità operative e progettuali cresciute rispetto a quando sono stato chiamato qui».

È appena arrivato e parla già del commiato...

«Sì, perchè dev’essere chiara una cosa: fra due anni non ci sarà il problema di ”che cosa fare di Moni Ovadia”. Le mie dimissioni sono già pronte. Quello che chiedo è soltanto di essere messo nelle condizioni di lavorare al meglio nei prossimi due anni».

In questo primo anno che cosa è mancato?

«Beh, c’è un problema di budget. Al festival vero e proprio va solo il 41% dello stanziamento. E i conti sono presto fatti: su un milione e mezzo di euro, per gli spettacoli che proponiamo in questa edizione noi abbiamo potuto contare su 650 mila euro. Il resto? Se ne va in mille rivoli: la struttura, la promozione, il film di Maurensig che costa centomila euro quest’anno e centomila il prossimo...».

Dunque?

«Dunque bisogna capire che cosa si vuol fare. Una volta i festival erano luoghi di eccezione: vedevi lì ciò che non vedevi altrove. Ora ci sono mille festival, il grande artista arriva ovunque, anche nelle piccole realtà. E una realtà come il Mittelfest deve decidere cosa vuol fare da grande».

Lei aveva detto: voglio coniugare qualità e respiro popolare...

«Lo penso ancora. Di solito ci si dibatte fra due estremi: il nome commerciale, che è di grande richiamo, e le cose d’avanguardia, buone per le minoranze. Bisogna trovare una via intermedia: sono convinto che i due estremi non siano in contraddizione. Non è vero che le cose di qualità debbano essere necessariamente d’élite. Bisogna avere fiducia nel pubblico e sollecitarlo, senza ovviamente scendere a compromessi col gusto di basso livello».

Dunque l’anno prossimo...?

«Se non ce la faccio l’anno prossimo sarà sicuramente nel 2006: penso a una grande coproduzione internazionale, di area mitteleuropea, magari di teatro musicale. Ho già dei contatti in Austria e in Ungheria. Penso a un grande regista di quest’area. Ma per pesare ci vogliono fondi...».

E torniamo al discorso del budget...

«Certo, perchè centomila euro nel cinema non sono nulla. Ci fai giusto un documentario che poi fai vedere al massimo nelle scuole. Ma nel teatro, e con le cifre con cui ho dovuto lavorare quest’anno, possono fare la differenza...».

Diceva che bisogna pensare in grande...

«Sì, io le nozze con i fichi secchi non le faccio. E non sono disposto nemmeno a produrre un mio spettacolo con i soldi del Mittelfest. Ma voglio dare il mio contributo a costruire progetti culturali di grande respiro, che guardino al futuro...».

Continui...

«Una volta c’era l’Occidente e dettava legge. Ora, in un mondo multipolare oltre che multietnico, dove si va con i pensieri e i progetti piccoli? Le piccole regioni devono pensarsi e proporsi grandi con il pensiero, con i progetti culturali. È finita l’epoca del proprio campicello...».

Il Friuli Venezia Giulia? Trieste?

«Trieste, che ha una storia e una configurazione importanti, deve porsi come ponte fra Mitteleuropa e Mediterraneo. Il futuro della città può e deve essere costruito anche attraverso la cultura. Cultura ed economia non sono disgiunte, non devono essere considerate antagoniste».

Bensì?

«Devono lavorare assieme. Bisogna convincere le forze economiche a investire sulla cultura. Bisogna raccogliere le radici, raccontare le storie, identificare le eccellenze per costruire una grande città, una grande regione che sia parte di una grande unione europea, anzichè una città e una regione periferiche».

Fra confini che cadono...

«Appunto. Finora il confine era luogo di scontro, di separazione. Ora diventa luogo di incontro, di progettazione. Ci sono sempre almeno due modi per affrontare i cambiamenti: arrancare dietro i fenomeni nuovi, oppure studiarli e magari farsene capofila. Trieste, città della psicanalisi, può essere luogo di eccellenza per studiare nuove identità, per costruire progetti. Perchè non pensare a un festival, a un museo su tutte le esperienze di confine...?»

Le sembra che Trieste sia su questa strada?

«Per la verità, no. La cultura serve a mettere in movimento le idee, a creare un humus favorevole a nuovi progetti. Bisogna aprirsi, non escludere. Chi non accoglie le diversità è destinato a non eccellere. Gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti perchè hanno sempre accolto le diversità. Anche Trieste lo ha fatto, in passato. Oggi la città ha eccellenze nel campo della scienza, della psichiatria. Ma con la vecchia retorica patriottarda non si va da nessuna parte».

«Una città, una regione rimangono nel mondo per le idee di quei pazzi che hanno avuto il coraggio di guardare più in là. Vogliamo una Trieste chiusa, piena di tricolori proprio nel momento in cui ci si apre all’Europa, o la vogliamo grande città europea? C’è bisogno di lungimiranza, è necessario affrontare il rischio dell’incontro, della contaminazione. Dobbiamo raccogliere le sfide, seminare idee, misurarci con gli altri, anzichè sognare logiche protezioniste, peraltro ormai impossibili...».

«Rinchiudersi nella propria piccola dimensione - conclude Moni Ovadia, ”ebreo milanese de Bulgaria”, triestino ormai quasi d’adozione - significa andare incontro a una sconfitta sicura, significa perpetuare la propria marginalità».

Nello spettacolo, verrebbe da pensare, come nella vita.

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