di Carlo Muscatello TRIESTE L'urlo tanto atteso scuote i trentamila dello Stadio Rocco alle 21.20. "Mandi Trieste, dobro vece..." mischia reminiscenze friulane e d'oltreconfine. Bruce Springsteen suona la carica. Il pubblico, arrivato letteralmente da mezzo mondo, non ha bisogno di essere svegliato. La città, storicamente sopita, forse sì. Partenza incendiaria, "Badlands" e "No surrender", roba tosta, d'annata, rispettivamente del '78 e dell'84. Roba buona, che apre la festa, il rito catartico e liberatorio che è ogni concerto del Boss. Alla faccia del mondo brutto e cattivo e delle nuvole nere che si defilano nella sera. Il colpo d'occhio non teme paragoni. È il più grande evento rock, forse non solo rock, mai visto e ascoltato e vissuto a Trieste. Che ieri sera ha ospitato il 39.o concerto italiano del Boss, il terzo nel Friuli Venezia Giulia (con cadenza triennale: 2006 Villa Manin, 2009 Udine...). Il palco è maestoso ma semplice. Bruce non ha bisogno di gigantismi, di effetti speciali, di astronavi e artifici e trovate tecnologiche. A lui basta la musica, un paio di passerelle e gli schermi giganti per avvicinarsi alla sua gente. Che lo venera. Tenuta da working class hero: camicia gilet e jeans neri, come le scarpacce giuste per quelli come lui, come i suoi, sempre nati per correre. Entra in scena come un eroe del West sulle note di "C'era una volta in America", omaggio a Morricone e all'Italia, ma anche citazione della distanza sempre più grande fra sogno americano e dura realtà, fra promessa di un domani migliore e un presente difficile, disperato. È il tema del nuovo album, "Wrecking ball", i cui brani già si sposano perfettamente con i classici. L'inno degli arrabbiati d'America, che diventa messaggio di patriottica solidarietà, di "We take care of our own", terzo brano in scaletta. La metafora della palla da demolizione che dà il titolo al disco e arriva subito dopo: distruggere per ricostruire, le case come le speranze e gli ideali spazzati via dagli ultimi anni di storia. E ancora la condanna degli avvoltoi «che hanno portato la morte nella nostra città», che hanno distrutto fabbriche e famiglie e ci hanno portato via la casa ("Death to my hometown", ideale contraltare alla vecchia "My hometown"). E ancora la speranza di farcela comunque, scandita da suoni da marchin' band di quel gioiellino che più avanti è "Jack of all trades": canzone "per tutti quelli che stanno lottando", fra i tempi duri americani e i nostri, peggiorati dalle macerie del terremoto. Ma non può mancare l'usato sicurissimo - e molto black - di brani come "My city of ruins" (scritta dopo l'11 settembre, presentata in italiano, dopo un "Ciao Trieste, come va, è bello essere qui..."), "Spirit in the night", "Johnny 99", "Working on the highway", "Waitin' on a sunny day", l'eterna attesa di un giorno di sole, con un bambino sul palco a cantare. Il Boss, sempre sensibile agli ideali di giustizia sociale, alterna le Fender Telecaster all'acustica nera. Voce roca e scura, racconta con tutta la rabbia che ha in corpo l'America dei tempi duri, tratteggia la Spoon River dei dimenticati dal sogno americano. E indica un domani per cui valga la pena lottare. Pesca nel grande romanzo a stelle e strisce, da Steinbeck a Kerouac, da Elvis a Dylan. Tiene assieme le radici culturali e musicali di un continente, parte da Nashville e finisce a New Orleans, passando per Detroit e New York. Lo stadio intanto è un catino bollente. Sciabolate rock, contaminate di folk e soul, squarciano la notte triestina. La folla segue il suo predicatore ("Shackled and drawn", con la voce nerissima di Cindy Mizelle), il suo linguaggio semplice ma universale. E il Boss si scatena, cerca il contatto anche fisico con il popolo delle prime file, del "pit" sotto il palco. Mentre la vecchia E Street Band - con un bolso Little Steven che fa da contraltare alla tonicità del nostro - è schierata come una falange macedone, anche quando s'inventa marce irlandesi punteggiate da cornamuse. Ma la notte è ancora giovane. Sono passate le 23, la gente canta e balla sul prato come nelle tribune, sa che il viaggio è ancora lungo. La cronaca purtroppo finisce qui, queste note devono andare in stampa. Un'analisi comparata delle ultime scalette, che il Boss si diverte a cambiare quasi ogni sera, prevede che il programma prima dei bis si concluda con "Land of hope and dreams", la terra della speranza e dei sogni inserita nel nuovo album. Poi, quasi senza soluzione di continuità, la festa nella festa dei tanti bis. Mischiando brani nuovi ("Rocky ground") e classici senza tempo, da "Born to run" a "Hungry heart", passando a volte per "Born in the Usa" e quasi sempre per "Dancing in the dark". Fino all'omaggio al grande Clarence Clemons che non c'è più. Sostituito da cinque fiati, molto tex/mex, fra cui quello del nipote Jake. Un momento di commozione in una notte di festa. Una notte che ci lascia la poetica del rock come antidoto alla solitudine, come speranza di riscossa nei nostri tempi scassati. . (Vien da pensare che se l'Italia e l'Europa e il mondo avessero un leader come quel sessantatreenne signore che sta sul palco, l'orizzonte sarebbe più chiaro. Per il momento, grazie Boss. Grazie di esistere.) Che ieri sera ha ospitato il 39.o concerto italiano del boss, il terzo nel Fvg...
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IL SINDACO NEL PIT
Roberto Cosolini non è certo il primo sindaco di una città ad assistere a un concerto di Springsteen. Di sicuro è il primo a vederselo dal "pit", il recinto sotto il palco riservato alla zoccolo duro del popolo del Boss. L'ha fatto anche ieri sera al Rocco, come già giovedì a Milano e il 13 maggio a Siviglia, e come tante altre delle precedenti 45 volte (quello di ieri sera è stato il suo concerto numero 46) in cui ha visto dal vivo il rocker di Freehold, a partire dalla mitica prima volta del 21 giugno '85 a Milano.
«Trieste non aveva mai vissuto - è il suo primo commento - un evento di spettacolo di questa rilevanza, in grado di mettere in moto una serie di effetti a catena di tale importanza: dall'arrivo di fan da mezzo mondo alle positive ricadute economiche sull'economia cittadina. Per eventi come questo tutto deve funzionare alla perfezione, ed è quello che è avvenuto».
Ancora il sindaco: «Siamo molto soddisfatti, anche se per un bilancio completo bisogna aspettare ancora qualche ora. Per la città è un sogno che si realizza. Avevamo cominciato a lavorarci ad agosto, quando si è saputo che c'era un disco nuovo e dunque un tour. Ma la certezza l'abbiamo avuta a metà novembre, pochi giorni prima dell'annuncio ufficiale».
«È chiaro - conclude Cosolini - che concerti come questi non sono facilmente ripetibili. Ci sono altri artisti che attirano le folle di Springsteen, ma magari non si fermano per due o tre giorni nelle città dei concerti. I maligni dicono che l'abbiamo organizzato troppo presto, che sarebbe stato meglio farlo a fine mandato? Chiacchiere. Questi sono eventi che si realizzano quando si presenta l'occasione. Non si possono fare calcoli».
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